Un sentiero di misericordia e di tenerezza

Quando mi accosto alla lettura di un nuovo libro, mi sento, solitamente, come chi deve scalare una montagna e non vede l’ora di potere arrivare in cima per potere guardare dall’alto i sentieri che ha percorso. Dopo, le soprese riempiono la mia lettura, quando noto, e può parere strano, che tra le pagine di quel libro fanno capolino i miei pensieri, le mie paure, i miei fallimenti, le mie fobie, le mie giornate, a volte anche le mie speranze, le mie domande e la mia ricerca di senso. Quando poi l’autore, di cui tengo in mano il libro, è, come nel nostro caso, un sacerdote, le cose si complicano ancora di più: non perché sia diverso da ogni altro autore, ma perché certamente apre a orizzonti nuovi, che non ti aspetti. Inizia, allora, una sorta di curiosa attenzione nella lettura che brucia non solo l’attesa di scoprire le ansie, i dubbi, le angosce, le passioni, le speranze, la gioia e il bene, di cui sono tessute le sue pagine, ma anche il tentativo di ravvisare in esse le ragioni di un’esistenza non tanto frutto di sogni o di condizionali, quanto invece quella reale del giorno per giorno che si consuma negli incontri e nelle visioni che, con stupore indicibile, riserva la vita e che le parole cercano con attenzione di comunicare.

Lo scrittore americano Raymond Carver a proposito della capacità delle parole di aprirsi a un ascoltatore o a un lettore diceva:” Le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”, perché, altrimenti, chi ascolta o legge non riuscirebbe a comprendere quanto un autore vuole significare e comunicare. O come dice santa Teresa D’Avila “Le parole muovono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza”

Perché, se bene si riflette, le parole, che si susseguono con armonia nelle pagine di “Questa è sempre casa tua”, hanno consentito a Don Terenzio Pastore anche di parlare di sé con se stesso, e di conoscersi ancora di più e di indirizzarsi prima a scoprire e poi a vivere il senso della vita e anche il fine; di coltivarne le positività e anche di dirne le negatività; di riscoprire la capacità del cuore di sentire con trasporto e con tenerezza la prossimità che, comunque, l’ha legato e lo lega agli altri in una specie di miracolo relazionale e, spesso, di gioia esistenziale. Si piegano, insomma, per la loro magia e con nostra somma meraviglia, a dire e a gridare quanto nel tempo, a volte anche senza piena coscienza, l’autore don Terenzio e io-lettore abbiamo, ognuno per conto nostro, pensato e stipato nel profondo, quanto crediamo vero e buono per farcene assaporare meglio il liquore e rivelarne il sapore, per dare intensità e luminosità alla vita, perché le parole non devono volere soltanto significare, ma essere. E così io-lettore sono andato per il mondo di Don Terenzio sperando di comprenderne il miele e, là dove a volte urla, anche la speranza di una incompiuta. E poi ancora dentro anche alle sue “storie” (perché anche di storie di donne e di uomini reali è tessuto questo libro) per conoscere pure attraverso la “sua” storia come avviene la vita parola per parola, come si succedono i giorni in cui la sua vita è mutata, e come Don Terenzio si è tuffato in essa con tutto il cuore, con tutta la mente, e con tutte le sue forze, alla ricerca del sé come atto di responsabilità e di compassione anche verso gli altri;  rinvenendo, a volte, ciò che non avrei mai pensato avesse costellato la sua esistenza e che egli ha fermato sulla carta con parole che non hanno bisogno di spiegazione né di credibilità, con uno stile ora incisivo, ora acuto, ora anche ironico, ora piano e docile e commosso. Perché, in sintesi, a me sembra che Don Terenzio attraverso il suo libro abbia confessato non solo una parte importante della sua vita e della ricerca del sé, ma anche il modo e le ragioni, pure a lui ignote, del perché la sua vita abbia avuto finora il taglio che lui le ha dato o che ha scoperto anche per le relazioni tessute con gli altri e, soprattutto, con la Parola di Chi gli è e ci è Padre, la cui casa è sempre casa nostra.

Questa è probabilmente la ragione per cui la sua narrazione rivela, pagina dopo pagina, un fascino insospettabile, perché non invita alla fuga dalla realtà, ma favorisce riflessione, meditazione, momenti di crescita personali, sviluppo intellettuale, valorizzazione morale e spirituale della propria vita. Ed è proprio il sistema narrativo scelto da Don Terenzio a fornirci un aiuto prezioso che conduce, passo dopo passo, a riconoscere e ad apprezzare aspetti sapienziali dell’esistenza, che possono fare riflettere me lettore e spingermi a considerare in maniera nuova miei problemi e difficoltà e viverli anche attraverso la stessa esperienza di fede. E così Don Terenzio, portandoci per le stanze da noi raramente esplorate della “casa” che propone come nostra, fa sì che il lettore , acquisendo nuove informazioni, possa scoprirsi e conoscersi in un’altra maniera, perché si confronta con il racconto, dal quale, poco alla volta, sarà coinvolto e con il quale riuscirà anche a interagire acuendo le proprie riflessioni e giungendo pure a modificare il proprio modo di pensare e di affrontare il problema che potrebbe essere suo e che, nel libro, è proprio dei personaggi che lo popolano e che non sono fittizi, ma reali, incontrati in carne e ossa da Don Terenzio, dei quali egli rivela difficoltà nell’affrontare i problemi che l’esistenza sbatte loro in faccia, e anche a noi, che per essi ci confrontiamo con il racconto della nostra vita. Da qui, strano che possa sembrare, il coinvolgimento del lettore. Scorrendo il libro di Don Terenzio, infatti, il lettore si rende conto di trovarsi, anche senza volerlo, dentro le “storie della casa” che hanno la capacità di muovere i suoi sentimenti, di richiamare alla memoria passi della Sacra Scrittura, che Don Terenzio porta a commento giustificativo della presa di coscienza anche di una problematica sociale o spirituale o per fare riconoscere i segni con cui nostro Signore si è fatto conoscere, e anche per farci valutare i criteri con cui ci muoviamo da soli o in comunità in direzione dell’altro: ovvero se le scelte da noi messe in atto corrispondono alla gratuità di un servizio all’altro o piuttosto alla ricerca di una gratificazione personale. Per questo nelle storie di Don Terenzio c’è una forte confluenza tra il problema di volta in volta prospettato e quanto rivela la Sacra Scrittura.  Don Terenzio e io-lettore, insomma, di pagina in pagina, pare siamo calati tutti e due nel racconto di fatti reali che all’unisono ci interpellano, coinvolgendoci e invitandoci, ciascuno per conto nostro, a prendere posizione. Perché, a ben leggere, accade che lui e io-lettore, andando per la narrazione, finiamo con il trovarci di fronte a problematiche reali della rappresentazione biblica o di chi di essa si fa testimone, come don Giuseppe Diana, di Casal di Principe, nella cui vita si è manifestato tra gli altri, come avrebbe detto di lui Papa Francesco, il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo, e che  è stato ucciso dalla camorra dopo essere stato chiamato e dopo avere risposto, ancora una volta, “eccomi”, senza cercare scorciatoie e assumendosi in prima persona la responsabilità di ciò che gli stava capitando: per amore del suo popolo, per il quale fu un “padre nell’ombra”, che con umiltà ha saputo guidare e si è lasciato guidare, rimanendo sempre nell’amore di Dio, esprimendo la fede per cui il discepolo “si affida” a Colui che lo chiama, condividendo il suo progetto di vita e perdendo il proprio. Come Don Terenzio scrive che il progetto di Dio dovrebbe essere, a proposito, non solo di un sacerdote, ma anche di ogni donna e di ogni uomo. Da qui l’importanza della lettura della Bibbia che, pure nella difficoltà dell’interpretazione, tuttavia non va dimenticata, perché quotidiano alimento per ciascuno di noi come nota Don Terenzio rifacendosi a Isaia “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11). Ma se per Don Terenzio, in quanto sacerdote, la cosa può apparire conseguenziale, per me lettore è un tantino diverso. Perché dal punto di vista del metodo narrativo le “storie terenziane” e la “storia di Terenzio” si svolgono nel tempo vissuto da Don Terenzio, mentre io-lettore ho necessità di apprezzarne i dati esperienziali nel tempo della mia lettura, soprattutto se il racconto, come detto più sopra, è confortato dalla verità che la Sacra Scrittura rivela, e, per questo, impegna la mia libertà di scelta e, insieme, il mio modo di analizzare e di affrontare l’esistenza. Ecco allora, se si sta attenti nella lettura di questo libro, che il lettore scopre oggettivarsi di volta in volta il racconto di Don Terenzio in maniera tale da risultare comprensibile a chiunque lo legga, anche se mutano nel tempo le motivazioni che spingono un individuo ad agire singolarmente o a camminare insieme con la comunità di appartenenza. Nel libro non sono, infatti, storie di vita analizzate nella prospettiva di Don Terenzio, ma, forse senza che l’autore l’abbia deliberatamente voluto, nella prospettiva di afferrare il lettore, in maniera empatica o simpatica, nella speranza che un dato reale posa suggerirgli, anche per inavvertita emulazione, un cammino a tappe, coinvolgendolo ora nella meditazione, ora nella preghiera, ora nel valore della condivisione nella carità e nella misericordia reciproca nella vita sociale. E anche quando Don Terenzio narra se stesso, dei suoi familiari, delle comunità a lui affidate dal Signore, adotta tratti che aprono alla comprensione di quanto vuole comunicare, perché racconta ciò che egli ha percepito nel tempo, come ha inteso gli episodi che hanno finora costellato la sua vita, come li ha considerati nell’ambito del suo particolare cammino esperienziale, e nella sua esistenza, rivelando ora in maniera velata ora esplicita i valori e la fede in cui crede, i sentimenti, i bisogni, le regole di condotta, quanto insomma permette al lettore di comprendere la persona che lui è. Anche da qui la maniera altamente comunicativa con cui Don Terenzio ricorda i fatti occorsi nella sua vita, e il fine per il quale li condivide, la freschezza morale e spirituale con cui ha inteso gli episodi che l’hanno visto crescere, come li ha posizionati nella “sua storia”, nella sua esistenza, (per dirne una, e forse la più apparentemente semplice, le espressioni in dialetto del padre, ad esempio, presi a paradigma di un modo di definire una persona, una situazione, un passo dell’esistenza), il modo di sentire e di interpretare le sue esperienze, dando pure a loro una identità narrativa, che, di volta in volta, porta Don Terenzio ad adottare criteri che lo inducono a dare senso e significato all’esperienza di un incontro, di una relazione, di una epifania di conversione, dell’apertura gratuita del cuore e delle mente verso l’altro, del dono di sé come grazia. E proprio per questo Don Terenzio cita la Evangelii Gaudium, l’Esortazione apostolica di Papa Francesco, là dove questa recita così “Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è un dogma, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa. Se la Chiesa intera assume questo dinamismo missionario, deve arrivare a tutti, senza eccezione” (E G, 48) E cosa significa, conclude Don Terenzio, se non “casa con le porte aperte e dinamismo missionario”? Da qui la fine, simpatica, anche se a volte amara, ironia delle pagine di “Quattro amici al bar”, in cui Don Terenzio sembra bonariamente biasimare il fatto che in qualche comunità non si accolga ancora il messaggio di Papa Francesco per “una Chiesa in uscita”, facendo venire meno così la spinta sinodale e missionaria cui si è chiamati. E come, invece, accade quando si ha a che fare con i poveri che il Signore ha affidato a una comunità, o anche semplicemente con una sola persona, ad esempio Alì, uno dei personaggi storici di una comunità, verso il quale quella comunità ha usato tanta compassione da gioire quando, dopo un delicato intervento chirurgico polmonare, che gli salvò la vita, Alì non solo cambiò stile di vita, ma rielaborò anche ciò che nel tempo aveva ricevuto dalla comunità, comprendendo che tutto era stato sempre fatto per il suo bene. Il nuovo Alì era l’esempio concreto di una promozione umana e il frutto di una semina durata anni. Così accennando Don Terenzio anche alla grande problematica educativa, che oggi preoccupa molto la società odierna. E a proposito della conversione umana e sociale di Alì perseguita da quella comunità, Don Terenzio scrive che l’esperienza fa il paio “con quella che vivono genitori ed educatori, chiamati a piantare nei figli, o in coloro che sono stati loro affidati, semi che un giorno germoglieranno. Con pazienza, costanza, misericordia, innaffiando con la preghiera”. Ma usando sempre compassione, abbracciando “la situazione dell’altro, facendola propria, senza pretendere nulla in cambio”, come nel caso di chi, dopo averlo già fatto, ha rinunciato ad abortire facendo suoi i semi che Don Terenzio aveva seminato sempre con discrezione e con rispetto della persona cui si rivolgeva: e cioè che “Dio è il Signore della vita e crea ogni persona a sua immagine e somiglianza, scegliendo i tempi del nascere e del morire – esclude che l’uomo si metta al posto di Dio, decidendo chi deve vivere e chi no. Per nessun motivo! E in nessuna fase della vita. Si tratta non solo di non abortire, ma di tutelare e difendere la dignità della vita, fino al suo termine naturale. Il credente, fidandosi della Parola di Dio e incoraggiato dall’esempio di chi lo ha preceduto, orienta su questi principi le sue scelte e spende le sue energie per trasmettere a chiunque questo insegnamento. Di vita.” Da qui anche le storie terenziane che fanno capo a fatti di mafia, che hanno visto vittime, tra le altre più note, Graziella Campagna e Attilio Manca; all’educazione alla legalità e al rispetto di questa per la quale sono state coinvolte tutte le scuole di ogni ordine e grado a Messina; al diritto al lavoro (esemplificato nella storia dei quindici operai che, investendo con coraggio il loro tfr, senza percorrere vie traverse, hanno dato vita al nuovo Birrificio di Messina, produttore della birra “dal sapore speciale, che mescola luppolo e sacrificio con malto d’orzo e legalità”.): diritto al lavoro che rende dignitosa la vita di una persona, e che spinge alla riflessione sull’impegno sociale e politico del cristiano. Il quale, fermo restando il suo impegno di laico negli affari socio-politici, non può comportarsi negli ambiti sociali, economici, politici, come se Dio non esistesse, o come se la morale e la fede cristiana, non debbano avere il loro peso nella prassi socio-politica di ogni giorno, o non tenere in conto la Dottrina sociale della Chiesa e di come alla realizzazione del bene comune essa educhi, facendo assumere uno stile cristiano a chi fa politica, il quale deve dimostrare sempre, nella vita privata come in quella pubblica, di praticare l’onestà, che è la virtù morale con la quale un politico si presenta ai suoi elettori come cristiano, e che praticherà sempre una volta eletto a rappresentarli .

 Così come, per altro verso, bisogna avere pazienza per correggere in una comunità gli occhi, le orecchie, e le lingue particolarmente dinamici del signor Archivio e della signora Sarta con le sue collaboratrici che, a volte, riescono ad alimentare il chiacchiericcio a tal punto da rischiare di dividere prima e distruggere poi una comunità, mentre in questa devono albergare “amore, gioia, pace” che insieme ad altri valori compongono il “frutto” dello Spirito Santo, come dice Paolo nella lettera ai Galati (5,22). Perché ogni cosa, nota Don Terenzio, è opera dello Spirito Santo, “senza il quale non si cantano messe” e per questo bisogna essere sempre in missione e non smettere mai di seminare il Vangelo all’interno di una comunità e al di fuori di essa sempre con gratuità, senza aspettarsi mai quali e quanti effetti positivi avrà potuto avere la semina, perché, ritorna a sottolineare Don Terenzio, “l’opera della grazia di Dio non si può pesare: può restare nascosta e, talvolta, riecheggia a distanza di tempo”. Da qui l’urgenza missionaria non solo all’interno delle comunità affidate a Don Terenzio nell’ambito territoriale in funzione anche dei problemi sociali di un quartiere o di una città, ma anche di queste verso l’altro che non ci è conterraneo, andando a trovarlo nella sua terra, come in Albania o a Kinangali, in Tanzania, dove regna la povertà e il bisogno estremo di quanto noi, popoli dell’opulenza, riteniamo vitale e che ai popoli poveri, e a quelli delle guerre di cui nessuno parla, è spesso negato, come, per esempio, tra gli altri non meno vitali diritti, il diritto all’acqua. C’è una pagina, a proposito, nell’ultimo capitolo del libro di don Terenzio, in cui l’autore, guidato nel Parco Nazionale di Mikumi in Tanzania, descrive l’avvicinarsi all’”Hippo pool”, “la piscina degli ippopotami”, di gruppi distinti di animali- dai bufali alle zebre, agli elefanti, agli gnu- che, tra ippopotami e coccodrilli di stanza, rispettano l’ordine e il tempo per potersi dissetare e bagnare. Ma quello che più colpisce è che gli animali-genitori, metafora di quanto noi dovremmo fare con in nostri figli, “educano i loro piccoli a riconoscere nell’acqua un bene a cui tutti hanno diritto.” E quindi un bene comune. “Non dovrebbe essere un concetto difficile da comprendere. Per noi, invece, accecati da egoistici interessi personali, non è ancora un dato unanimemente riconosciuto”. Perché usiamo parlare di bene comune, ma quando si tratta di riconoscerlo e salvaguardarlo in concreto, tradiamo spesso le nostre stesse parole e i nostri intendimenti.  Così come “guardare in direzione di Kinangali”, considerando i bisogni di cui i popoli poveri hanno necessità, “rende immediata l’identificazione e la compassione, fa sgorgare la carità, orienta verso Dio”. Perché noi, che, come ci ricorda Don Terenzio, siamo stati misericordiati, e verso i vicini, e anche verso quelli che consideriamo lontani o addirittura nemici,  dobbiamo essere a nostra volta misericordiosi: non in un modo qualsiasi, ma nello stesso modo in cui in maniera scandalosa lo è Dio che, come il buon samaritano ha compassione di noi, non smette mai di attendere e di accogliere chi persino lo abbandona, che come il buon pastore esce a cercare chiunque si smarrisce o addirittura si perde, che con pazienza infinita va sempre in cerca di chi è lontano, perché la sua casa è sempre casa nostra, casa di tutti, nessuno escluso. Essere, insomma, in cammino verso la casa del Padre, misericordiati che amano Dio che non vedono e il prossimo che vedono, tenendo sempre a mente cosa significa “misericordia”, che a ben guardare, però, continuiamo spesso a ignorare, perché non rammentiamo quanto a noi proclama Isaia (58,6-8)

“Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto; nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà.”

E che Gesù completa quando ci dice, ricordando pure Osea, per ben due volte in Matteo (9, 13; 12,7): “Misericordia io voglio e non sacrificio”. Perché come rammenta Don Terenzio, riprendendo un’omelia di Papa Francesco “lo stile di Dio è anche uno stile di compassione e di tenerezza”, per il quale il Papa invita: “Non chiudete il cuore ai problemi…Perdete tempo ascoltando e consolando… Per favore: siate misericordiosi, siate perdonatori. Perché Dio perdona tutto, non si stanca di perdonare… Vicinanza e compassione. Ma compassione tenera, con quella tenerezza di famiglia, di fratelli, di padre… con quella tenerezza che ti fa sentire che stai nella casa di Dio”, perché anche qui e ora “Questa è sempre casa tua”.

 

Messina 17 marzo 2022          Orazio Nastasi

“Chi lo acquista contribuirà a portare l’acqua a Faraja, a Scolastica, a Maximiliano e a tutti i bambini di Kinangali che, finora, conoscono solo l’acqua che vien giù dal cielo”

«Davvero sono passato da Kinangali solo per esclamare: “Poverini”?».

A Kinangali giungeranno le gocce d’acqua di chi prenderà a cuore il progetto.
Quel deserto fiorirà!.

Per informazioni chiama al numero fisso
06.92110876 o al numero Whatsapp 375 665 5188

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Il progetto

Scavare un POZZO per portare l’ACQUA a Kinangali!

Una luce attraversa all’improvviso i nuvoloni del mio cuore. Ho sempre pensato che, se il libro fosse stato pubblicato, ne avrei devoluto il ricavato in beneficenza. Ora comprendo che il Signore mi sta consegnando un vero e proprio progetto!

Sostieni il progetto!